SPIDER-MAN: NO WAY HOME (2021)

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L’ha fatto” si diceva di Thanos dopo il famoso schiocco di dita di Infinity War. E lo stesso si può dire dei Marvel Studios dal 2008 in poi: l’hanno fatto. Hanno creato un universo cinematografico condiviso con una visione a lungo termine all’epoca ritenuta impensabile. E questo, al di là della qualità tecnica di ognuno dei film dell’affresco, non si può ignorare. Così come non si possono ignorare le abitudini di visione che questo blockbuster seriale ha comportato, fuori e dentro la sala: hype, spoiler e congetture social sulle prossime mosse del capoccia Kevin Feige e soci, lo stare seduti fino al termine dei titoli di coda per le “scene post-credit” che di volta in volta – anche se spesso in maniera pretestuosa - anticipavano personaggi e tematiche dei film successivi o mostravano il collegamento con la trama principale. Da letture dei fumetti Marvel degli anni ’90 non avrei mai immaginato di vedere un giorno un film (o addirittura più film) con personaggi sconosciuti al grande pubblico come Ronan l’Accusatore (cito il primo che mi viene in mente) ed è elettrizzante vedere su schermo l’incarnazione di personaggi e situazioni che prima erano solo appannaggio dei lettori dei comics. Personaggi e situazioni che, ricordiamolo, anche se oggi vengono visti come una novità attingono però a man bassa da quando hanno creato scrittori e disegnatori dagli anni ’60 in poi. Ma anche questo rientra nel rito collettivo che si è venuto a creare: il piacere di unire alla sensazione di deja vu del cartaceo la resa visiva di questo o quel personaggio o avvenimento. Una resa visiva ad alto buget, altra cosa impensabile fino a una quindicina di anni fa.
E poi nel puzzle è arrivato anche lui, l’amichevole Uomo Ragno/Spider-Man di quartiere. Un’ulteriore chicca, dato che Sony ne deteneva i diritti e sembrava non potesse far parte della partita.
Confesso di non essere mai stato soddisfatto del trattamento che l’Arrampicamuri ha ricevuto in questo contesto: ci hanno mostrato un Peter Parker sotto l’ala di Tony Stark e dalle sue tecnologie, un adolescente entusiasta che continuava a sfoggiare armature davanti a uno smartphone e a gridare “Signor Stark, Signor Stark!”, con un migliore amico ancora più infantile, una zia milf che flirtava con i miliardari e un senso di responsabilità totalmente assente, che lo allontanava in maniera radicale dalla controparte cartacea. Non che mi aspettassi una fotocopia del Peter originale (che, ricordiamolo, anche nei comics è adolescente nelle sue prime avventure) ma lo spirito del personaggio mi sembrava essere stato in qualche modo tradito a favore dell’obbiettivo di ingraziarsi le simpatia di un pubblico di adolescenti seguendo i trend social del momento. Certo, i film non erano male ma quello sullo schermo non era il Peter Parker nerd, appassionato di scienza e responsabile che dalle sue colpe imparava l’altruismo e dalla tragedia diventava un eroe di quartiere. Trovavo molto più interessanti i villains, sia l’Avvoltoio di Keaton sia il Mysterio di Gyllenhaal sono stati ottime trasposizioni, oltretutto ben radicati nella storia e nel contesto che si volevano raccontare, senza troppe forzature e fan-service (parola chiave sempre più in uso anche tra i critici) eccessivo.
Ma il Ragno mancava.
Come interpretare quindi l’arrivo del terzo capitolo? Dato il trend le aspettative non erano molto alte, anzi l’aver appreso dell’introduzione del Multiverso come pretesto per il ritorno di personaggi (e attori) presi dalle vecchie incarnazioni del franchise faceva temere un bel buco nell’acqua. Il disastro era dietro l’angolo, così come il rischio di replicare errori da troppa parte al fuoco come avvenuto con il terzo capitolo della trilogia ragnesca di Sam Raimi (tre villains e una pessima sceneggiatura che non riusciva a valorizzarne nemmeno uno, prendendo il peggio degli stilemi dei film precedenti).
Devo dire che in sala ho dovuto ricredermi: la Marvel è riuscita non solo a evitare di bruciare la suddetta carne al fuoco ma ad alzare l’asticella sia dell’MCU sia del Ragno di Tom Holland, utilizzando il pretesto degli universi paralleli per includere nell’affresco (e canonizzare) le precedenti incarnazioni cinematografiche di Spider-Man e nel contempo far crescere ed evolvere il protagonista. Ne giova sia il tono del film – che pur non rinunciando ai momenti comici ha un tono drammatico che esplode nella seconda parte del film – sia la sceneggiatura, le cui innegabili sbavature (legate soprattutto secondo me a situazioni non del tutto chiarite) sono tuttavia amalgamate dal pathos emotivo che accompagna lo spettatore. Inoltre il suddetto fan-service è sì molto presente ma è pienamente giustificato dalla trama. Così diventa una gioia rivedere Alfred Molina nei panni del Doctor Octopus e soprattutto Willem Dafoe in quelli di Norman Osborn/Green Goblin. Le interpretazioni dei due, tutt’altro che dei cammeo gratuiti, riescono addirittura a valorizzare ulteriormente le performance dei film del 2002 e del 2004.
In particolare Dafoe torna davvero in grande stile nei panni del folle Folletto Vede, con una ferocia che mancava nel pantheon dei villain di questo giovane Uomo Ragno e che fa venire voglia di vederne ancora di più in futuro. Per la prima volta il Parker di Tom Holland si trova di fronte a un avversario davvero pericoloso e, soprattutto, per la prima volta questo Spider-Man deve fare i conti con le sue responsabilità e con le conseguenze delle sue azioni. Non entro nel merito degli sviluppi e delle sorprese che la pellicola riserva, ma finalmente assistiamo alla vera nascita dell’eroe e a un cambio di status quo del personaggio che finalmente rende giustizia – pur con tutte le differenze del caso – alla controparte cartacea. Tra le note positive di questo “No Way Home” c’è anche il ritorno di J. K. Simmons nei panni nel burbero J. Jonah Jameson, qui in tono più complottista ma che ci fa rivivere davvero le invettive contro il “vigilante mascherato” a cui Stan Lee ci aveva abituati.
Notevole anche il comparto tecnico, in particolare per quanto riguarda le scene d’azione (un paio delle quali veramente adrenaliniche), anche quelle più corali in cui ai personaggi complessivamente viene dato il giusto spazio. Forse tra i villain che riappaiono, solo l’Uomo Sabbia continua a essere non pienamente valorizzato, tra l’altro il suo atteggiamento cambia nel corso del film in una maniera un po’ gratuita e qui ancora una volta tiriamo in ballo le sbavature della sceneggiatura. Stesso discorso vale anche per il Dottor Strange, al centro dell’incantesimo che aprirà le porte del Multiverso ma a mio avviso un po’ troppo troppo nervoso e indeciso per essere un (quasi) Stregone Supremo. Sono comunque dettagli non particolarmente fastidiosi in un film che scorre piacevolmente nelle sue due ore e mezza di durata e con cui il Marvel Cinematic Universe non solo si amplia (arrivando a includere anche universi narrativi che sembravano non canonici) ma ci regala finalmente uno Spider-Man degno di questo nome.
Concludo aggiungendo un’ulteriore nota positiva: la grande affluenza di pubblico al cinema ha riportato al centro del dibattito la visione in sala concepita come rito collettivo (ricordiamo che il cinema nasce come attrazione e questa dimensione gli è sempre appartenuta, prima ancora che gli venisse riconosciuto lo status di Arte). Di questo, da appassionati del grande schermo, non possiamo che essere contenti.
(Luca Romanelli)